Editoriale

EDITORIALE

Perché facciamo il tifo per il Covid-19?

Perché facciamo il tifo per il Covid-19?
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6 - 11 minuti di lettura

L'autolesionismo a livello collettivo, e non individuale, è un fenomeno che certamente accompagna l'umanità fin dalla sua esistenza. Senza andare troppo indietro nel tempo, durante la Prima Guerra Mondiale accadeva di frequente che i soldati, stanchi e spaventati dagli orrori della trincea, si ferissero volontariamente con le proprie armi per ottenere l'allontanamento, almeno temporaneo, dai combattimenti. Il milite arrecava insomma un danno a se stesso pur di non subire conseguenze peggiori in battaglia e per ritrovare un po' di riposo negli ospedali delle retrovie o magari addirittura in un congedo a casa.

Non è diverso lo schema mentale che guida chi si convince della realtà di una determinata narrazione di per sé discutibile andando incontro a conseguenze negative ma evitando allo stesso modo paure ed effetti ancora peggiori che si avrebbero affrontando la realtà. E' il fenomeno dell'autosuggestione, non a caso legato spesse volte all'ipocondria.

Ricordando a noi stessi che al di là dei numeri, delle statistiche e dei dati esiste anche una realtà sensibile che possiamo cogliere oggettivamente coi nostri sensi, c'è una dinamica che è andata via via rafforzandosi nell'opinione pubblica italiana a partire dall'agosto del 2020, quando il governo italiano, sulla base del nulla che ognuno di noi poteva constatare, decise di tornare a reintrodurre una serie di restrizioni in materia di contenimento dei contagi da sars-cov-2 che sarebbero culminate nelle zone rosse dei mesi invernali. E questa dinamica è il sostanziale tifo che gran parte delle persone ha fatto e continua a fare a sostegno della fantomatica pandemia da covid-19.  

Questo vero e proprio sostegno da parte degli italiani, del tutto paragonabile a quello che un governo in guerra vorrebbe dalla propria popolazione civile, è evidente in due momenti principali.

Prima di tutto laddove l'opinione pubblica è prontissima ad accettare i dati più devastanti sull'andamento epidemiologico, quali ad esempio il numero dei positivi giornalieri, tralasciando però di togliere dal conto coloro che sono risultati positivi a un secondo tampone ravvicinato di controllo – sostanzialmente soggetti conteggiati due volte – e di discriminare tra i positivi realmente malati, ossia un'esigua minoranza, e i semplici portatori sani, la stragrande maggioranza, persone che stanno benissimo e che non sono con ogni probabilità nemmeno contagiose, ma che hanno scoperto di avere l'agente virale in circolazione a seguito di un test di routine per motivi lavorativi o per un semplice eccesso di zelo. Allo stesso modo la maggioranza ha puntualmente creduto ai proclami governativi che annunciavano terapie intensive prossime alla saturazione con conseguente necessità di tornare a chiudere attività e limitare i contatti tra persone, sebbene i numeri forniti dalle istituzioni stesse dipingessero un quadro a tinte molto meno fosche per i nostri ospedali.

Il secondo momento in cui questo tifo si è scatenato, ed è tuttora in corso, sta nell'incrollabile certezza che il nemico pandemico sia invincibile. Sebbene fin dall'inizio del caos legato alla diffusione del nuovo coronavirus in Italia moltissimi medici abbiano tentato con successo la cura dei malati, anche in gravi condizioni, vuoi in ospedale con terapie da tempo note quali il plasma iperimmune o l'ozono, vuoi a livello domiciliare con semplici farmaci da prontuario, e nonostante col trascorrere dei mesi queste felici casistiche siano andate aumentando arricchendosi tra l'altro di nuovi ed utili contributi, ebbene, nonostante tutto questo l'opinione pubblica italiana è rimasta volutamente cieca e sorda davanti a tali evidenze preferendo in modo appunto autolesionistico mettere da parte le armi che avrebbero permesso di vincere il nemico e continuare a considerare quest'ultimo invincibile.

In entrambi i casi gli italiani hanno dimostrato, come prevedibile, di essere pronti a credere molto di più alla conseguenza emotiva delle informazioni ricevute che non al loro lato oggettivo.

A ciò si aggiunga che l'agente virale e indirettamente la patologia di cui è portatore, è stato pure rivestito di un'aura panteistica nel momento in cui si è accettata la fantomatica figura del malato asintomatico. Una figura del tutto priva di ogni logica scientifica ma estremamente significativa socialmente e psicologicamente poiché essendo per l'appunto privo di sintomi, chiunque. Anche noi stessi, può rivestire questo ruolo senza saperlo rendendo di fatto il pericolo della malattia onnipresente.

Se è vero che in caso di una reale emergenza pandemica non sarebbe edificante un atteggiamento troppo disinvolto, spavaldo, superficiale nei confronti delle possibilità di contagio e malattia, è anche vero che l'eccesso opposto, quello che di fatto stiamo vivendo da 20 mesi a questa parte, non si limita a portare conseguenze negative sul piano civile e del tutto inutili su quello sanitario, ma è anche sospetto sul piano morale.

Se ci sforziamo di restare sul piano razionale non ha infatti alcun senso che una persona si ostini a credere, a voler credere che la propria vita non possa più proseguire come in passato a causa di una malattia quando questa sua convinzione non trova alcun effettivo riscontro nella realtà. Per quale assurdo motivo un essere umano dovrebbe rinchiudersi in casa, evitare incontri con altre persone, magari cercare l'amore della propria vita solo per paura di prendersi – potenzialmente – un'influenza curabile da casa? Perché autoconvincersi che il pericolo sia tanto grande? Perché credere fermamente che ogni singola cura proposta ed efficace sia in realtà derubricabile al rango di nuova bestemmia, la fake news? Dove sta la razionalità nell'acclamare addirittura l'istituzionalizzazione di questa prospettiva pessimistica con provvedimenti che mettono al bando le cure e peggiorano le condizioni cliniche dei pazienti?

Sarebbe paradossalmente più comprensibile l'estremo opposto, la sottovalutazione irrazionale del rischio, pur di  andare avanti a vivere come prima.

E invece no.

Sembra che l'opinione pubblica abbia bisogno di un nemico dalla forza dirompente, non può accettare l'idea che per lasciarselo alle spalle serva solo uno sforzo di volontà.

E naturalmente non ci si può fare a meno di chiedere a questo punto: perché?

Anche le possibili risposte sono due e sono entrambe inquietanti e collegate l'una all'altra.

Non possiamo negare che nella sua fase iniziale la narrazione pandemica ha costituito per tanta parte della società un alibi straordinario per giustificare le proprie mancanze comunitarie. Improvvisamente le visite ai nostri cari, ai nonni, ai parenti, quei raduni in famiglia che per troppi erano solo un obbligo cui ottemperavano solo per conservare una facciata di correttezza sociale, sono diventati tabu in quanto possibili occasioni di contagio. Ecco quindi che il nuovo “bravo ragazzo” non è più il nipote che rinuncia a qualche ora del suo tempo per andare dagli anziani nonni a fare un saluto, ma l'egoista ingrato che, con la scusa del tutelare i più deboli e quindi gli anziani, se ne guarda bene dal portare un po' di colore e compagnia nella vita dei suoi parenti.

Al tempo stesso se prima del canovaccio pandemico l'abuso di cellulari, tablet e reti sociali, per quanto di fatto accettati, erano ancora visti come una dipendenza, un qualcosa da cui ogni tanto ci si doveva liberare a beneficio di una passeggiata o di una chiacchierata vis a vis con un essere umano in carne ed ossa, l'isteria da covid-19 ha ratificato questo nuovo stile di vita promuovendolo a socialmente e medicalmente corretto trasformando il “non ho voglia di alzarmi dal divano” in “non posso mettere in pericolo me e gli altri”.

L'altruista post-pandemico non è la persona che interagisce costruttivamente con la società, che si mette in gioco e a rischio se necessario prestando soccorso e aiuto. Esso è al contrario l'individuo essenziale, colui che si isola volontariamente, che si barrica dietro la distanza offerta dal virtuale delle chat e delle videochiamate o dietro la protezione del tutto illusoria delle mascherine, delle visiere, degli sguardi che hanno sostituito le stretta di mano e dell'alcool che scorre a fiumi a igienizzare le superfici per cancellare letteralmente ogni segno di passaggio dell'altro.

Senza contare che, in un'epoca fortunatamente lontana dalla grandi guerre, la narrazione pandemica presentata come guerra al virus, con tanto di generale al comando nella nostra povera Italia, ha permesso alle ultimi generazioni senza spina dorsale di percepirsi finalmente con un ruolo nella storia, di avere la propria impresa da compiere.

Ma in modo più sotterraneo il covid-19 ha offerto all'opinione pubblica (Carl Gustav Jung avrebbe forse detto al suo inconscio collettivo) una formidabile possibilità di proiettare all'esterno tutti i problemi che essa covava dentro di sé.

L'essere umano, e lo diciamo qui con prospettiva fortemente antropocentrica ben lontana dal politicamente soporifero dei Friday for Future e dalle manie di depopolamento delle élite, è il problema del pianeta Terra così come l'italiano è il problema principale dell'Italia (e, spesse volte, ognuno è il principale problema di se stesso). Ma guardarsi allo specchio, prendere atto delle proprie responsabilità, dei propri limiti, trovare poi la forza per rinnovarsi, non è cosa comune tra gli esseri umani ed anche in questo caso viene in soccorso l'alibi esterno, qualcosa su cui scaricare la colpa perché, si sa, noi avremmo voluto agire con tutto il cuore ma questa cosa ce lo ha impedito...

Il covid-19, non quello reale ma la sua catastrofica percezione comune alla maggioranza della gente, ha vestito alla perfezione i panni del primo, nuovo, grande problema nazionale e mondiale. Improvvisamente la causa di ogni male, sociale ed economico, non eravamo più noi ma una invisibile patologia. Se era troppo difficile accettare l'idea di essere noi il nostro stesso male, è stato al contrario comodo e facile accettare che il covid fosse il nuovo vero cancro.

Questo è il motivo per cui opinione pubblica e classe medico-scientifica hanno amplificato spropositatamente la sua portata. Ogni altra patologia tipica del nostro tempo e che affondasse le radici proprio nel nostro malsano stile di vita, quali tumori, ipertensione, cardiopatie, potevano comodamente finire come la polvere sotto il tappeto per essere mascherate da una nuova e universale causa di morte capace di liberarci da ogni responsabilità umana e medica: il covid-19.

Non avrai altra malattia all'infuori di me.

Eppure sarebbe sbagliato non vedere, a fronte di questo fanatico catastrofismo, anche una malintesa volontà di rinascita da parte della gente, un desiderio comunque presente di tornare alla “normalità”. Una normalità, beninteso, nuova, secondo la teologia dell'anno 1 d.C., laddove l'acronimo, in un momento in cui l'amuchina ha sostituito l'acqua santa e il signor Bergoglio ha contribuito non poco a sposare la narrazione pandemica, non sta certo per dopo Cristo ma per dopo covid.

E così, come il fedele di una qualsiasi religione tende ad aderire a quella parte della dottrina che più gli aggrada lasciando ipocritamente da parte il resto, la nuova religione sanitaria ha permesso all'italiano medio di ratificare dentro altri templi la propria ipocrisia. Ed ecco che, se il covid-19 continua ad essere abbastanza pericoloso da impedirci di trovare qualche momento per andare a visitare gli anziani o partecipare a un incontro pubblico – attività da sostituire dogmaticamente con una videochiamata o una videoconferenza -, non è però tanto letale da impedirci di cenare fuori con gli amici o andare alla stadio.

Naturalmente per riprendersi quanto di buono può offrire questa nuova normalità, occorre il rito di passaggio, l'iniziazione sociale in grado di farci accedere esclusivamente ai piaceri del nuovo mondo escludendone i fastidi. E questa iniziazione, questo rito che ha visto migliaia di inconsapevoli in fila come in altre epoche persone alla ricerca di ben altre speranze stavano in attesa sulle rive del Giordano, ha perfettamente preso la forma del siero genico sperimentale, indebitamente detto vaccino. Un qualcosa che, simbolicamente più ancora che fisicamente, entra dentro di noi e inizia a scorrere nelle vene quasi a rinnovarci dall'interno, a purificarci e rinnovarci.

La nuova normalità è, in qualche forma perversa, il nuovo paese dei balocchi in cui l'italiano pandemico al prezzo di una puntura, può  vivere tranquillamente su quella linea di confine che gli permette con disinvoltura di raccogliere tutto il bello e il comodo del dopo covid ma al tempo stesso di tralasciare tutto quanto non lo aggrada sentendosi per questo socialmente virtuoso.

Naturalmente la condizione necessaria è appunto credere, voler credere, dover credere che la fatiscente narrazione pandemica sia reale. Occorre credere che sia sbagliato e pericoloso visitare un anziano ma che sia giusto trastullarsi con la pornografia in rete. Occorre credere che sia sbagliato far interagire liberamente i bambini ma che sia giusto assistere a una partita di calcio dal vivo.

L'italiano tifa per il sars-cov-2 perché esso, invisibile e quindi per assurdo vissuto come onnipresente, è l'indistruttibile alibi che gli permette di essere come avrebbe sempre voluto, per questo non può accettare che esso in realtà non sia quel mostro che sembra. Ammettendo questo, verrebbe meno ogni giustificazione a quei comportamenti ormai diventati prassi e che sono invece l'apoteosi dell'egoismo e della demenza mentale.

L'italiano tifa per il virus perché finché esso persiste resta in piedi anche il teatrino della sua misera vita godereccia.

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